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Home | Archivio per la categoria "#acasatuttibene" (Pagina 2)

A Casa Tutti Bene. Lo sappiamo che per molti oggi non è così. C’è chi ha bisogno di più “rumore” attorno e chi, invece, di molto più silenzio rispetto a prima.
A Casa Tutti Bene è come una radio da lasciare accesa quando ne abbiamo voglia, da alzare a tutto volume se ci và, da abbassare o silenziare del tutto quando vogliamo stare da soli.
A Casa Tutti Bene non è, quindi, IL progetto di questa quarantena ma UN progetto, IL NOSTRO, unico perché composto da una “teoria” di artisti, uomini e donne di cultura che hanno scelto di condividere con noi il loro tempo, oggi, così dilatato e così compresso. Grazie.

In collaborazione con Espoarte.

ARCHIVIO CATEGORIA: #acasatuttibene

Giu18

Anna Stuart Tovini, Vincenzo Chiarandà (Premiata Ditta)

#acasatuttibene. Premiata Ditta: “Il nostro desiderio è senza nome”

Anna Stuart Tovini e Vincenzo Chiarandà da Milano

Cosa vi manca? La vostra personale esperienza dell'”assenza” e della “mancanza”.
La nostra casa studio è sempre un luogo di incontro, qui è nato UnDo.Net e sono state fatte mille riunioni o festeggiamenti per i più svariati progetti. Da fine febbraio a oggi sono entrate solo voci; le persone che fumano vicino alla finestra, le risate un po’ sguaiate, i brindisi e gli sguardi truci, no.
Sono secoli che dobbiamo imbiancare, c’è ancora sul muro uno scarabocchio che è rimasto da quando Francesca Alessandrini ha infilato una matita a tenere fermi i capelli in una coda, ma non ci stavamo tutti intorno al tavolo ed eravamo appoggiati un po’ ovunque. Lei si era agitata parecchio discutendo e nel frattempo la matita aveva scritto da sola sul muro. Anche Francesca ora non c’è più…

Sono nati nuovi luoghi e spazi alternativi di coesione intorno a voi? (pensiamo alle corti dei palazzi, ai terrazzi ecc…)
Viviamo in un quartiere speciale: la Chinatown milanese. I nostri amici dei ristoranti di fronte hanno chiuso per primi e poi hanno distribuito (gratis) centinaia di mascherine che si sono fatti spedire. Andavano a darle alle persone in fila davanti ai supermercati. I ragazzi della Brigata Franca Rame hanno preso posto nel casello all’angolo di Porta Volta e hanno suonato e cantato per tutti il 25 aprile, e poi hanno tenuto sempre pieno il carrello con le cose da lasciare o da prendere (pasta, barattoli, biscotti, sapone), un’iniziativa solidale a disposizione di chiunque avesse bisogno: sia di essere generoso che di essere aiutato. Sentirsi utili fa bene!
La nostra è una tipica casa di ringhiera lombarda, ben tenuta ma ancora con i ballatoi che corrono davanti all’entrata degli appartamenti, una specie di lungo balcone in comune su ogni piano, quindi non c’è molta privacy anche volendo. Nei primi due livelli abita gente molto varia, quelli al terzo sono tutti scappati in montagna e al mare. Così chi è rimasto ha fatto massa, facendo la guardia ai vecchietti. Per esempio appendendo dappertutto cartelli scritti a pennarello “Valeria non uscire!”, i bimbi del secondo piano si sono messi a giocare con l’acqua e a raccontare storie ad Augusta che li ascoltava dal primo, libri da scambiare stavano in fila sotto la casella della posta, c’era chi faceva da mangiare anche per gli altri, prestiti e regali passavano da un livello all’altro via ascensore e il povero Bullo ululava ogni volta che si sentiva passare un’ambulanza (nel silenzio notte e giorno, insieme ai canti dei merli…).

Come immaginate il mondo, quando tutto ripartirà?
Per rispondere a questa domanda ci piace citare Mark Fisher: “La produzione di nuova cultura richiede un utilizzo del tempo nei confronti del quale il capitalismo comunicativo manifesta profonda ostilità. La maggior parte dell’energia sociale è risucchiata nel vortice del lavoro tardocapitalista e nella sua grandiosa simulazione di produttività […] Se esisterà un futuro, dipenderà dalla nostra capacità di riconquistare quegli utilizzi del tempo che il neoliberismo ha cercato di escludere e farci dimenticare”. M. Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici, Minimum Fax, 2020

Ad oggi quali sono state per voi le conseguenze immediate della diffusione del Covid-19 sul vostro lavoro e quali pensate possano essere le conseguenze a lungo termine?
Per tutto l’inverno abbiamo fatto riunioni per organizzare Walk-In Studio, il festival delle mostre negli studi e spazi d’artista. Questo progetto nasce per creare un circuito di scambio e incontro, per favorire l'”avvicinamento sociale”! Doveva essere in giugno e, invece, è slittato in ottobre.
A fine gennaio è uscito il nostro libro Profiles – Ritratti di cose e di persone da un’isola in mezzo all’Atlantico (edito da Meltemi). Si tratta della parte di un progetto più ampio iniziato nel 2018, stavamo organizzando le presentazioni quando tutto è vacillato e ancora oggi non è chiaro quando e se riusciremo a concretizzare le ipotesi che erano state fatte.
Poi abbiamo dovuto annullare anche diversi studio visit… E molte cose non succederanno più; le conseguenze saranno, come sempre, frutto del Caso.
Però durante la quarantena abbiamo realizzato molti nuovi lavori per i quali la situazione è stata un forte stimolo o un punto di partenza.
Poi, è stato interessante partecipare ad alcuni dei progetti digitali che si sono sviluppati durante il lockdown e credo che anche la reazione degli artisti e dei lavoratori della cultura (sia attraverso l’impegno del Forum dell’arte contemporanea che del movimento AWI) prospettino nuove opportunità per gli artisti italiani, anche se a breve termine sarà durissima. La ferocia e gli abusi non sono entrati nel “tempo sospeso” tanto citato dai giornalisti, ci sono artisti che sono morti in galera facendo lo sciopero della fame senza essere ascoltati, c’è chi ha picchiato con il calcio del fucile la ragazzina bella come un manga, chi ha abbattuto il teatro simbolo della cultura contro la mafia albanese, la polmonite in Africa, la promiscuità dei poveri in India e chi è morto a Milano, in mezzo ai suoi sacchetti, perché tanto anche il dormitorio era infetto…
La visione liberista di ripresa non sarà certo più attenta ai problemi ecologici o ai diritti della scuola pubblica. All’inizio pensavamo che questo disastro potesse essere l’occasione di imparare qualcosa, ora che potrebbe invece diventare la scusa per fare anche peggio. Però di certo ha fatto capire a tutti che “non sono sempre gli altri a morire”.

Premiata Ditta (Anna Stuart Tovini e Vincenzo Chiarandà). Attiva dal 1984, con base a Milano, Premiata Ditta ha interrogato le questioni dell’autorialità e dell’economia sviluppando progetti artistici di tipo partecipativo e interattivo. Nel 1995 ha dato vita al network UnDo.Net ancora oggi accessibile come archivio online. Dal 2015 l’azione di Stuart Tovini e Chiarandà si sviluppa attraverso la produzione di nuove opere, installazioni e lecture, inoltre, negli ultimi anni Premiata Ditta ha organizzato Studi Festival (e attualmente Walk-In Studio), un’iniziativa d’arte pubblica che coinvolge e coordina decine di autori. Premiata Ditta è stata inclusa in importanti premi e rassegne italiani oltre a numerose pubblicazioni e mostre internazionali.
Sono tra i partecipanti del Forum dell’Arte Contemporanea e tra i fondatori di Walk-in Studio, festival degli studi d’artista che si tiene a Milano.
Il loro ultimo progetto,
Profiles, si è svolto in collaborazione con gli abitanti dell’isola di Graciosa (Azzorre) tra il 2018 e 2020, ne è parte l’omonimo libro pubblicato dall’editore Meltemi.

Giu15

Claudio Musso

#acasatuttibene. CLAUDIO MUSSO: «Tutti giù per terra»

Claudio Musso da Bologna

Con quali oggetti e spazi del tuo quotidiano stai interagendo di più?
Non sarò originale, ma l’oggetto principe del mio quotidiano in questo periodo è stato il libro. Non ho titoli inaspettati da consigliare o pagine indimenticabili da riportare, piuttosto il racconto di un rapporto con la materia-libro. Li ho sfogliati e risfogliati, li ho piegati e ripiegati gli uni negli altri, li ho appoggiati ovunque, li ho spostati, riordinati, annusati…
Qualcuno li ha chiamati rifugi, altri li hanno utilizzati per evadere, altri ancora li hanno dosati in base al tempo che avevano a disposizione, io li ho sempre tenuti stretti, vicini, a portata di mano. Non per paura di perderli, ma perché la loro presenza riempiva qualsiasi vuoto.
Uno spazio domestico che ho riscoperto è il pavimento. Anche in questo caso niente di nuovo, ma una vera riappropriazione. Per la ginnastica e per le birrette serali, per ascoltare musica e rivedere film o serie TV, per il relax o per la video scrittura (comprese queste righe), coadiuvato da cuscini, materassini e teli, il parquet è diventato il mio ambiente preferito.
Non so se sia stato un bisogno di “orizzontalità”, di sentirsi tutti allo stesso livello, o, piuttosto, una voglia di aggregazione comunitaria che sostituiva quella dell’essere seduti o sdraiati sull’erba. «Tutti giù per terra».

Stiamo capendo che si può vivere con meno mobilità?
Per me questo è un cruccio, il mio impegno di docente mi porta normalmente a viaggiare ogni settimana tra Bologna e Bergamo. Quindi non posso negare che la didattica a distanza abbia reso più stanziale la mia quotidianità in questi mesi e mi abbia fornito il privilegio di accedere liberamente al mio archivio e alla mia biblioteca per fare lezione. D’altra parte sono convinto che non si possa sostituire l’esperienza della relazione interpersonale in presenza, ma che si possa fare una seria riflessione sulle modalità d’insegnamento e sulle possibilità offerte dalle connessioni telematiche. Con gli studenti c’era spesso un bisogno di condivisione che andava oltre le informazioni sull’arte e sugli artisti. Nei primi tempi soprattutto (penso al mese di marzo e all’inizio di aprile) si parlava della condizione che stavamo vivendo, molti di loro in luoghi come Val Seriana drammaticamente colpiti dal COVID-19. L’atmosfera mi ha ricordato molto certi momenti delle lezioni di italiano o di storia al liceo in cui il dialogo sul presente e sulla società emergeva con forza dalle pieghe dell’argomento trattato, facendo slittare l’attenzione del docente e degli studenti sulla vita, colmando come per magia (e solo per alcuni istanti) le distanze tra scuola e quotidiano.

Quando tutto questo finirà: una cosa da fare e una da non fare mai più.
Non so se “questo” finirà o se gradualmente ci abitueremo a forme diverse del vivere sociale o, ancora, se ci saranno altre svolte radicali. Quello che mi ripeto è che devo cercare di non dimenticare le piccole cose che mi hanno fatto stare bene, una per tutte: leggere ad alta voce, da solo o in compagnia. E devo ricordare anche quanto è bello ‘non fare’, ma senza l’estremismo del ‘sempre’ o del ‘mai più’, meglio con il più rilassante ‘ogni tanto’.


Claudio Musso
: Preferisco critico d’arte a curatore, ma non sono un nostalgico. La mia principale attività è quella presso l’Accademia G. Carrara di Belle Arti di Bergamo dove, oltre a insegnare Fenomenologia delle arti contemporanee e Teoria della percezione e psicologia della forma, sono Coordinatore del corso di Pittura e Coordinatore Erasmus, ma soprattutto mi sento parte di una piccola, vera comunità.

Ho cercato fin dagli anni dell’università spazi per la scrittura d’arte (da Exibart a Digicult), dal 2011 collaboro per Artribune dove oggi mi ritrovo tra gli editorialisti. Due anni fa ho iniziato a collaborare con NEU Radio conducendo un programma di interviste agli artisti che si chiama Die Straßenzeitung. L’ultima mostra che ho curato è la personale di Ivana Spinelli  Contropelo presso Gallleriapiù a Bologna. http://accademiabellearti.bg.it/

Giu13

Leonardo Regano

#acasatuttibene. LEONARDO REGANO: il pubblico al centro del sistema

Leonardo Regano da Bologna

La tua nuova ritualità quotidiana…
Fare i conti con il distanziamento sociale. L’attuale situazione ha sdoganato le lunghe file e le attese in ogni aspetto della nostra quotidianità. Se fino a ieri tutto doveva essere “fast”, oggi torniamo per necessità allo “slow” anche solo per comprare un biglietto dell’autobus. Quello che mi chiedo è: fino a quando reggeremo?

Abbiamo a che fare con un tempo e uno spazio nuovi. Cosa stai scoprendo o riscoprendo di te?
Siamo stati proiettati in un tempo alterato, senza momenti di pausa, dove le giornate trascorrevano tutte uguali tra loro. La percezione è stata quella di vivere in un momento unico, dilatato e sospeso dove il tempo era scandito dal ritmo biologico e non dagli impegni che si susseguivano, come invece accadeva in precedenza. Ho imparato a fermarmi a osservare il cielo, a leggere un libro solo per il piacere di farlo o vedere un film senza la preoccupazione di una mail a cui rispondere. Ho vissuto quasi più una vacanza, nella fortuna di un lavoro che non è mai mancato per quanto alternato ad alcuni momenti di pausa. La mia concezione dello spazio invece si è praticamente annientata, costretto e rinchiuso in pochi metri quadrati; l’unico momento di sfogo è stato il guardare fuori dalla finestra o il cercare una realtà diversa, virtuale o immaginaria. Per paradosso oggi, quando ormai tutto questo è praticamente terminato, provo un forte senso di straniamento nell’uscire da questa comfort zone e tornare a vivere la vita come era prima.

Musei e gallerie hanno reagito al momento con la digitalizzazione e la virtualità. Quali sono le tue “strategie” per instaurare nuove relazioni?
Mi sono interrogato a lungo su questo aspetto. Di certo non si può sostenere che digitalizzazione e virtualità siano in grado di sostituire la fruizione diretta dell’opera d’arte. La loro enorme diffusione in questo periodo è quindi dovuta a un altro aspetto. C’è di fondo una paura che ci ha mossi tutti in questa direzione ed è stata quella di essere dimenticati o, meglio, di essere considerati come un servizio superfluo per la società. E senza ipocrisie, la colpa di questo è solo nostra, non del pubblico. L’arte è divenuta “superflua” perché non siamo stati sufficientemente comunicativi. Soprattutto noi che ci occupiamo delle arti visive. Ci siamo arroccati su un piedistallo dove il nostro lavoro è diventato solo per pochi, dove si scrive solo per gli addetti ai lavori, dove si vende solo a gente con una determinata cultura e una certa disponibilità economica. Chi, di contro, ha fatto della comunicazione al pubblico (e perché no, anche dello sbigliettamento) il proprio obiettivo è sempre stato visto come un fastidioso produttore di mainstream. Il mio non è un invito alla banalizzazione dei contenuti ma è un mea culpa dal quale credo non ci si possa esimere se vogliamo ripartire e risanare gli errori del passato. Penso a quella triste gaffe del Presidente del Consiglio per il quale gli artisti sono solo “quelli che ci fanno divertire”. In quel momento, credo che Giuseppe Conte abbia rappresentato il sentire comune alla maggioranza degli italiani per i quali esiste l’artista performativo, l’attore o il danzatore che vive per la comunicazione e per il rapporto diretto con il pubblico, mentre noi addetti alle arti visive siamo solo un contorno, anche un po’ sfumato se vogliamo. Quindi ben venga oggi iniziare a pensare a nuovi modi per accogliere i visitatori nei musei e nelle gallerie e farli sentire al centro di un sistema e non più la sua parte “eccedente”; e bisogna fare questo anche con video e contenuti più empatici in cui siano sempre più spesso le persone a parlare (direttori, curatori, mediatori, studenti) e a creare i contenuti, che non possono essere più ridotti a semplici post di immagini e testi – tra l’altro spesso molto tecnici e poco accattivanti. Ed è questa la “strategia” che personalmente sto percorrendo, collaborando qui a Bologna come storico dell’arte con istituzioni locali per la realizzazione di video che raccontino le loro collezioni al pubblico (l’ultimo per la Raccolta Lercaro) e come curatore presentando oggi una mostra alla Galleria Studio G7, dove ragiono proprio su questo tema, sul ruolo delle immagini in questi mesi di lockdown, dando l’opportunità al visitatore di mettere direttamente a confronto durante la visita in galleria i due momenti di visione: quello mediato attraverso le nuove tecnologie per mezzo di un visore per la realtà virtuale; e quello dell’incontro diretto con le opere e con il curatore che si fa mediatore culturale e accoglie uno per uno i visitatori in mostra.

Com’è cambiato il tuo modo di lavorare?
Avrei voluto risponderti che oggi c’è meno frenesia e più rispetto per le “attese creative”. Ma il rallentamento delle pressioni con cui siamo normalmente abituati a confrontarci credo sia ormai già finito e siamo davvero molto vicini a recuperare i ritmi precedenti.

Quando tutto questo finirà: una cosa da fare e una da non fare mai più.
Una cosa da fare è subito tornare a viaggiare; una da non fare mai più è mangiare pipistrelli e pangolini (spero).

Leonardo Regano (Bari, 1980. Vive e lavora a Bologna). Storico dell’arte, museologo, critico e curatore indipendente interessato alle pratiche di relazione tra arte e paesaggio urbano, agli studi di genere e alle nuove generazioni. Ha curato mostre per Istituzioni pubbliche (tra cui Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, Bologna; Mar – Museo d’Arte della Città di Ravenna; Museo di Palazzo Poggi, Bologna; Polo Museale dell’Emilia-Romagna) e realtà private e gallerie (tra le più recenti collaborazioni quelle per Traffic Gallery, Bergamo; Galleria Studio G7, Bologna). È stato tra i coordinatori del Progetto Zero… Weak Fist di Patrick Tuttofuoco, vincitore dell’Italian Council 2017. Nel 2018 ha coordinato la residenza bolognese di Helen Cammock, vincitrice della settima edizione del Max Mara Art Prize for Women. Dal 2013 è curatore degli eventi che il Laboratorio Degli Angeli dedicato, durante Arte Fiera, alle problematiche del restauro del contemporaneo. Attualmente è curatore della mostra collettiva Chiaroscuro alla Galleria Studio G7 di Bologna. www.leonardoregano.com

Giu12

Luciano Massari

#acasatuttibene. LUCIANO MASSARI: riscoprire gli spazi degli affetti

Luciano Massari da Carrara

La tua nuova ritualità quotidiana…
Le giornate trascorse nel mio studio sono state un rito che ha rappresentato una salvezza in questa sospensione del tempo. Sono per natura un iperattivo e questa forzata battuta di arresto sapevo che sarebbe stata un problema. Per fortuna il mio studio si trova a 200 metri di distanza da casa e ho potuto raggiungerlo senza rischiare sanzioni e senza autocertificazioni. Come ogni ritualità che ci costruiamo, è stato un modo per dare senso a un tempo dilatato e inedito per noi, sempre in corsa e in affanno.

Com’è cambiato il tuo modo di lavorare?
In questa fase di lavoro in studio, che è stato abbastanza proficuo, contrariamente a ciò che normalmente faccio ho usato molto la carta e i colori: il mio studio era già ben fornito di materiali e anche nel momento in cui era impossibile, per decreto, comprare materiali per le belle arti, ho avuto modo di continuare a lavorare e a sperimentare.

Con quali oggetti e spazi del suo quotidiano stai interagendo di più?
Lo spazio con cui ho interagito di più è stato quello dello studio, oltre che, naturalmente, lo spazio domestico. Lo spazio dello studio, inteso non solo come spazio architettonico ma come spazio mentale della dedizione all’arte, mi ha avvolto e mi ha dato la possibilità di mettere in parentesi oggetti con i quali mi interfaccio quotidianamente: uno di questi, ad esempio, è stato il telefono che ho usato solo per le comunicazioni veramente importanti.

Abbiamo a che fare con un tempo e uno spazio nuovi. Cosa stai scoprendo o riscoprendo di te?
In questa situazione irreale, perché spesso mi sono chiesto se tutto questo stesse davvero capitando a noi, sono riuscito anche a fare pace con me stesso e con la mia risposta frenetica ai tanti problemi che si presentano contemporaneamente. È stata anche un’occasione per riscoprire gli spazi degli affetti: la casa, che è il luogo degli affetti familiari, e lo studio perché anche il rapporto con le proprie opere è, in fondo, un rapporto affettivo. Alla fine di tutto questo, il lavoro in studio sarà una delle cose che da “rituale” diventeranno quotidianità.

Cosa ti manca? La tua personale esperienza dell’“assenza” e della “mancanza”.
Quello che mi manca è la presenza fisica delle persone, degli amici, mentre l’assenza è uno dei temi che tratto nelle mie opere e quindi ci sono immerso.

Sono nati nuovi luoghi e spazi alternativi di coesione intorno a te? (pensiamo alle corti dei palazzi, ai terrazzi ecc…)
Il mio studio si trova all’interno di un edificio liberty, molto interessante dal punto di vista architettonico. In questo condominio c’è un giardino che, per molto tempo, non è stato utilizzato. In occasione del lockdown il giardino ha ripreso una nuova vita ed è diventato un punto di incontro e di scambio. Nel condominio, e anche nelle case attigue, in questi ultimi anni è cambiata la composizione degli abitanti: sono arrivate persone giovani, con bambini, alcune di queste persone lavorano nel campo dell’arte. Insomma c’è stata anche la possibilità di confrontarsi.

Luciano Massari, nato a Carrara dove si è formato all’Accademia di Belle Arti, ha iniziato la carriera artistica ed espositiva all’inizio degli Anni ’80. Il suo lavoro spazia tra numerosi linguaggi e materiali: dal marmo alla fotografia, all’uso di carte speciali, all’installazione ambientale. Dal 2004 l’artista porta avanti una ricerca sui temi dell’emergenza ambientale e dei cambiamenti climatici che dà vita a grandi narrazioni scultoree, alle installazioni ambientali e alla realizzazione di mappe e territori immaginari.
Nel corso della sua carriera ha esposto in Italia e all’estero, recentemente a Seoul all’Hangaram Museum. Docente di Scultura in varie Accademie italiane, Massari è stato Direttore dell’Accademia Albertina di Belle di Torino e dal 2016 dirige l’Accademia di Belle Arti di Carrara. www.accademiacarrara.it
www.lucianomassari.com

Giu12

#acasatuttibene. Cesare Biasini Selvaggi: direzione e senso, il nuovo per un motivo

Cesare Biasini Selvaggi da Roma

Quale deve essere il ruolo dell’editoria in un momento storico come quello attuale? Un magazine o una piattaforma di informazione specialistica, quali sfide può concorrere ad affrontare?
Credo che il ruolo dell’editoria, in questo momento storico segnato dal Covid-19, sia strategico nella risposta alle gravi emergenze in corso, da quella sanitaria – ancora attualissima – a quella economico/finanziaria che scandirà il nostro prossimo futuro. Un ruolo da interpretare, però, lungo le tre dorsali della coscienza, della libertà e della responsabilità dei propri operatori. All’editoria “da servizio pubblico” si è affiancata, infatti, già dai primi giorni dell’emergenza, l’editoria del sensazionalismo esasperato alimentata dalla fornace, sempre attiva, delle fake news. Con un unico risultato: disorientare e, quindi, destabilizzare ulteriormente l’opinione pubblica. Tanto che presto dalla “pandemia” si è sfociati nella cosiddetta “infodemia”, con la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, spesso non vagliate con la necessaria accuratezza.
Occorre invece, oggi più che mai, un’editoria alimentata da voci autorevoli e affidabili, che “faccia le pulci” senza pregiudizi a quel potere politico e amministrativo nella cabina di regia di decisioni dai possibili effetti epocali. Un’editoria che dia voce a coloro che si presentano forse dall’appeal poco “cool”, ma con un contributo originale e, soprattutto, un’esperienza concreta da apportare ai dibattiti in corso, esito del proprio silenzioso quanto operoso lavoro quotidiano, nelle fabbriche, nei sindacati, negli studi professionali. Un concorso di idee e di soluzioni allargato, dall’approccio olistico e meritocratico, di chi viene dalla cultura dell’esperienza e del “fare”, si rivelerà infatti l’ingrediente decisivo nella definizione delle ricette per il post-Covid. Un’opportunità senza precedenti di trasformare l’Italia in un Paese più moderno, competitivo, equo e sostenibile.
In questo ambito un magazine o una piattaforma di informazione specialistica del settore culturale può giocare un ruolo di primo piano. Il lavoro di conoscenza e di radicamento nei territori della cultura può dare, e sta dando, un contributo fondamentale al dibattito “interno” sulle proposte da mettere sul tavolo delle amministrazioni pubbliche. Per l’attuazione non solo delle indispensabili politiche urgenti di sostegno, ma anche di riforma e di rilancio, sul medio e lungo periodo, di musei, teatri, spazi no-profit, operatori dell’arte, i cui problemi sono ormai atavici, e precedenti al Coronavirus. Occorre, a mio avviso, pertanto fare informazione, veicolare riflessioni, certo, ma anche stimolare quelle necessarie “sintesi” che facilitino, al riguardo, la comunicazione con l’“esterno”, con i “non addetti ai lavori” dell’arte e della cultura, in particolare con coloro che hanno in mano le leve decisionali nel governo, nelle istituzioni, e che fino a oggi non hanno “brillato” certo per interesse nei confronti del settore culturale e, in particolare, delle arti visive. Un’operazione di sensibilizzazione che non deve comprendere, tuttavia, solo i problemi interni al sistema dell’arte, ma anche il ruolo decisivo che arte e cultura possono giocare nella risoluzione della crisi generale in atto. Perché gli artisti, come afferma anche il mio amico Filippo Riniolo, attraverso la facoltà del pensiero e della mano creano soluzioni innovative. Ma non è il nuovo per il nuovo. È il nuovo che ha senso. Direzione e senso. È il nuovo per un motivo. Perché parte dai problemi, per immaginare le soluzioni. Perché parte dalla persona. Dalla figura umana (il soggetto più rappresentato nella storia dell’arte) che è sempre, e deve esserlo, l’alfa e l’omega per cui facciamo le cose.

Come immagini il mondo, quando tutto ripartirà?
Ovviamente, mi piacerebbe dire migliore, con più equità (sociale, di genere, ecc.), più sostenibilità (a partire dall’ambiente), più meritocrazia. Molti proclamano da settimane: “Nulla sarà come prima!”. Eppure, io temo fortemente che tutto sarà come prima! Perché se è vero che la paura ammansisce, è vero anche che la ricerca del benessere immediato abbrevia la memoria su quello che è stato. Ecco perché non mi stanco di scrivere, insieme a tanti altri osservatori, che non ci occorre oggi una “ricostruzione”, piuttosto un “nuovo Rinascimento”. E non è solo una questione di brand o di etichette. Sarebbe un errore provare a ristabilire lo “status quo”, quello della cosiddetta “normalità” pre-pandemia. Perché si trattava di una normalità che forse calzava bene “all’orticello” egoistico di molti, ma che proprio non funzionava, iniqua, miope, indifferente alle questioni ambientali (a partire dal riscaldamento globale), alle sperequazioni sociali, senza una visione di Paese, di continente, di pianeta nel medio-lungo termine. Abbiamo in questo tempo presente, al contrario, la possibilità di ripartire dalle macerie causate dal Coronavirus, per liberarci da lacci e lacciuoli logori, da formule ormai stantie, per costruire finalmente un’alternativa con un’effettiva discontinuità rispetto al passato. E in questo gli artisti possono giocare un ruolo decisivo, grazie al loro innato “sguardo laterale” rispetto alla realtà contingente, alla loro capacità di riuscire a vedere avanti nel tempo e di sapere costruire una diversa visione di Paese, di bene comune e di comunità.

A oggi, quali sono state per te le conseguenze immediate della diffusione del Covid-19 sul tuo lavoro, e quali pensi possano essere le conseguenze a lungo termine?
Essendo un libero professionista che opera da giornalista e da manager di fondazioni e associazioni culturali, potrei dirti che le conseguenze immediate sono state negative, a seguito del blocco di larga parte della progettualità in corso e in programma per l’anno, legata soprattutto a progetti “in presenza”, come è necessario che sia nel campo delle arti visive. Eppure, il lavoro ha anche beneficiato non poco da questa situazione stra-ordinaria. Ho avuto molto tempo per corroborarlo con lo studio e la riflessione (prima ridotti ai margini della cosiddetta “quotidianità normale”). Ho impiegato, per esempio, i mesi di lockdown per leggere libri che tenevo in attesa impilati, per comprarne tanti altri di discipline diverse, per iscrivermi a un nuovo corso universitario. Penso che l’aggiornamento permanente e l’acquisizione di nuove competenze rappresentino un viatico ancora più necessario sia alla comprensione della complessità dei tempi che verranno, sia al riposizionamento che tutti noi dovremo compiere della nostra vita, a partire da quella professionale. Probabilmente, infatti, molti ambiti tradizionali di attività si assottiglieranno, alcuni scompariranno del tutto sotto i colpi del Covid-19. Ma sono convinto, come peraltro si è già registrato durante la fase acuta dell’emergenza sanitaria, che si apriranno contestualmente nuove praterie di opportunità professionali, anche nel settore culturale e delle arti visive, nuovi scenari “ibridi”, dall’operatività divisa tra “in presenza” e “da remoto”, tra “tempi veloci” e “tempi lenti”. Con un sano recupero della dimensione “locale” a scapito di quella “globale” che, fino a pochi mesi fa, aveva il sopravvento, con effetti a dir poco inquietanti. Ci sono frontiere davvero sfidanti per noi operatori culturali. Penso non solo alla digitalizzazione del settore, con i necessari pesi e contrappesi, ma anche alle frontiere di “cultura e salute”, del welfare culturale, dell’arte e della cultura nelle aziende, per contribuire a innovarne processi, prodotti, relazioni industriali, all’insegna della competitività sostenibile che guarda a un futuro migliore. Una prospettiva ancora possibile.

Cesare Biasini Selvaggi (Roma, 1977) è un giornalista e manager culturale. Da marzo 2017 è direttore editoriale delle testate giornalistiche exibart.com, exibart.onpaper, exibart.tv. Da settembre 2018 è Segretario generale della Fondazione Selina Azzoaglio-Innovation through Art (Ceva, Cuneo) e consulente di numerosi Enti del Terzo Settore (Fondazione OELLE-Mediterraneo antico, Catania; Sculture in Campo, Bassano in Teverina; Associazione Vittorio Messina, Marcellina, ecc.). Svolge consulenza per l’istituzione e lo sviluppo strategico di fondazioni e associazioni per tutelare l’attività di artisti e di collezionisti, e per la gestione di archivi d’artista finalizzati alla pubblicazione e all’aggiornamento di cataloghi generali. È, inoltre, specializzato in innovazione d’impresa attraverso la cultura e l’arte contemporanea. Tra gli ultimi progetti in corso di realizzazione, è impegnato nella costituzione di un Osservatorio nazionale sulla comunicazione culturale digitale del contemporaneo (musei, fondazioni, gallerie, fiere).
www.exibart.com

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