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Lorenzo Bruni da Roma
Con quali oggetti e spazi del tuo quotidiano hai interagito di più durante la quarantena?
Hanno vinto, in pareggio purtroppo, due oggetti: le cuffie per le lezioni a distanza con i miei studenti e l’oggetto libro cartaceo. Invece ha visto una forte svalutazione il mio preziosissimo Kindle, il quale normalmente è l’oggetto che uso di più durante i miei spostamenti per i viaggi di lavoro. Al suo posto ho riscoperto i miei libri cartacei, saggi che non si trovano in rete, che mi hanno dato la possibilità di approfondire ricerche che avevo lasciato per troppo tempo in attesa come una ricerca sulla videoarte, sulla storia della grafica e sul concetto di crossover negli anni ’90.
Cosa ti è mancato? La tua personale esperienza dell’“assenza” e della “mancanza”.
Le passeggiate di notte nel centro di Firenze dopo gli incontri con il gruppo di artisti del collettivo di Base progetti per l’arte, i tramonti sul Gianicolo di Roma o quelli in montagna… Oltre al momento in cui il tipografo ti consegna il libro appena finito. Erano in dirittura di arrivo tre libri e quell’incontro adesso è rimandato o forse cancellato. Forse potrò compensare in futuro con la presentazione di alcuni libri come quello dei venti anni di attività di Baseitaly.org? Al posto di questi appuntamenti sono riuscito a conquistare più tempo per confrontare le mie idee con mia moglie, storica dell’arte del Futurismo e curatrice. Ho avuto più tempo per ascoltare meglio le sue idee, tra cui quelle legate al ruolo della cultura e della didattica a distanza… tema scottante e sempre più attuale.
Musei e gallerie hanno reagito al momento con la digitalizzazione e la virtualità. Quali sono le tue “strategie” per instaurare nuove relazioni?
Sono sempre stato uno sperimentatore delle possibilità della comunicazione digitale. Ma proprio in questo periodo ne ho avuto un rifiuto. Troppi commenti auto-riflessivi. Troppi monologhi senza un vero dialogo. Così, mi sono concentrato sullo sviluppo di una piattaforma online di contenuti legata al progetto di The Others per indagare il ruolo dei non profit e delle giovani gallerie, oltre all’indagine di come sia cambiato il mercato dell’arte negli ultimi dieci anni. Tale progetto non nasce dal nulla: era iniziato un anno fa con la prima edizione della fiera me diretta, durante la quale si è puntato a creare una piattaforma teorica e pratica su cosa intendiamo oggi per indipendente, ovvero da cosa e come. Nel momento dello sconvolgimento sociale e lavorativo dovuto al Coronavirus, questa mi è parsa una riflessione ancora più necessaria. Abbiamo deciso di aspettare la ripartenza del paese e la fine del lockdown per uscire con una serie di numeri online di una rivista correlata alla fiera. Proprio per non incorrere nella saturazione di informazioni a cui eravamo arrivati in quarantena e non far apparire il progetto soltanto una reazione istantanea alla pandemia, ma un qualcosa di diverso. Infatti, è legato a reagire ad una crisi di sistema più ampia, che questa pandemia ha portato a svelarne solo alcuni aspetti più evidenti.
Stiamo capendo che si può vivere con meno mobilità?
Stiamo capendo che abbiamo usato le nuove potenzialità tecnologiche per intrattenimento più che come uno strumento o un fine per trovare nuove soluzioni. D’altra parte, dobbiamo renderci conto che l’economia dell’epoca post-ideologica deve essere ancora compresa fino in fondo. Si tratta di un’economia che è andata sempre più verso una dimensione che non produce oggetti, bensì servizi, o meglio esperienze di intrattenimento. Alcuni germi di questo cambiamento possono essere visti nella grande diffusione, venti anni fa, di Ikea che per l’appunto non vende semplicemente oggetti, bensì un evento in cui il consumatore diviene il produttore (montatore) dei suoi mobili. Esagerando potremmo dire che tutti noi, oggi, siamo dei creatori di servizi (grazie ai nostri social media) e consumiamo e ci relazioniamo con gli altri solo per accedere ai materiali, per completare i servizi che dobbiamo fornire. È quello che accade con la piattaforma Gnammo, che mi porta a comprare alimenti per invitare degli estranei per una cena cucinata da me a pagamento. Lo stesso accade con il ben più noto Airbnb, in cui possiamo vendere, da due anni, servizi come guide turistiche nella propria città e non solo la propria casa a tempo. Queste modalità di servizi (forniti e ricevuti) oltre a essere dei modi aggiuntivi di guadagno, cosa sono se non dei modi per intrattenere il tempo e divertirsi in maniera alternativa? Infatti, questo tipo di servizio non è adatto a chi è senza lavoro, ma si rivolge ad un altro tipo di di audience. Un audience che è legato alla ricerca di un nuovo tipo di intrattenimento e che è alla ricerca di nuovo ruolo in questa società liquida. Il periodo della quarantena ha amplificato questo stato di cose legittimato dal fatto che ognuno aveva tanto tempo libero, legalizzato, da investire. Il punto è che si è spostato tutto nel mondo del virtuale, svelando a tutti il nuovo stato delle cose in maniera equivoca. Quello che veramente abbiamo scoperto è che il mondo non è a portata di click, ma che il mondo è nella nostra stanza. La vera nuova sfida, quindi, non è praticare i servizi (usati e forniti) da remoto, bensì capire non soltanto quali sono le nuove esigenze, il desiderio di desiderare, ma quali sono i nuovi possibili obiettivi di questo mondo economico/sociale/politico di servizi virtuali. Questa è la vera domanda che ci dobbiamo porre.
Ad oggi quali sono state per te le conseguenze immediate della diffusione del Covid-19 sul tuo lavoro e quali pensi possano essere le conseguenze a lungo termine?
Le conseguenze immediate riguardano il mio portafogli. Tanti progetti curati da me che stavano per inaugurare o che si erano da poco inaugurati si sono bloccati. Il lavoro era già stato fatto, ma non è stato pagato a fronte del momento di crisi con la sua mancanza di pubblico, di collezionisti ecc. Certo tutto riprenderà e anche gli appuntamenti fissati semplicemente slitteranno. Alla lunga anzi i progetti si moltiplicheranno. Però la vera questione da far emergere è la precarietà del sistema economico legato alla cultura, debolezze che non possono più passare inosservate. Nel nostro caso specifico di curatori e di storici dell’arte è evidente che negli anni c’è stata una confusione. Ovvero il nostro lavoro, che consiste nel dialogo tra ricerca teorica e organizzazione dei vari ruoli coinvolti in un progetto, è stato sempre più interpretato come una semplice azione fluidificatoria di possibili contatti che devono portare consenso e soldi. Dovremmo imparare come categoria, come gli architetti anglosassoni, a far pagare il progetto e la progettualità. Spostando tale riflessione dal ruolo degli operatori della cultura visiva a quella della cultura dell’intrattenimento (dal museo al teatro) è evidente che da qui in avanti, dopo il Coronavirus, dovrà essere affrontato un ripensamento del lavoro rispetto all’utente smaterializzato; smaterializzazione che, per il distanziamento sociale, è diventata ancora più necessaria. I musei dovranno essere pagati solo quando verranno fruiti fisicamente? o dovrebbero offrire un servizio differente? In questo periodo, infatti, è stato chiamato in causa, per quanto riguarda il teatro o le arti performative, il modello Netflix. Quest’ultimo si paga prima di aver visto effettivamente il film, ad essere pagata è la libertà di poter vedere dei prodotti in potenza. Questo tipo di piattaforma non è però la soluzione, anche se pensarla come tale solleva il grande problema di come trasformare il servizio/retribuzione dei lavoratori della cultura senza incorrere nel famoso incubo dell’industria cultura di adorniana memoria. È una bella questione che aspettava da lungo tempo di essere affrontata, insieme a quella sul nuovo ruolo dei musei: cosa conservare e soprattutto per chi? Oggi dobbiamo aggiungere a queste domande: fruirne i contenuti come e in quale modalità?
Lorenzo Bruni è critico e curatore indipendente e dal 2000 è coordinatore dello spazio non-profit BASE / Progetti per l’arte (baseitaly.org) a Firenze per cui continua a realizzare progetti con i più importanti artisti attivi oggi a livello internazionale. Negli ultimi dieci anni insegna fenomenologia ed economia delle arti presso differenti accademie italiane oltre ad essere docente di Storia delle Arti visive e di storia della grafica, dal 2017, presso AANT di Roma. Dal 2019 ricopre il ruolo di direttore di The Others, una fiera dedicata agli spazi non profit e alle giovani gallerie emergenti che si svolge a Torino e per cui inizia un progetto di rivista online. Inoltre prende parte al board di The Phair una fiera dedicata alla fotografia e continua la sua collaborazione con il museo 900 di Firenze (iniziata nel 2018) dove cura il ciclo Duel con cui coinvolge artisti di fama internazionale (Ulla von Brandeburg, Jose davila, Yuyang Wang) a dialogare con un’opera scelta da loro dalla collezione permanente. Sempre nel 2019 avvia il ciclo di mostre dal titolo Connection in collaborazione con la galleria Frediano Farsetti di Milano producendo la prima mostra dal titolo ‘iniziamo da qui’ e il primo volume incentrato sull’eredità degli anni ‘90 in italia con interviste a Stefano Chiodi, Giorgio Verzotti, Angela Vettese e Giacinto di Pietrantonio. Nel 2018 ha collaborato con il MAGA – Museo di Gallarate e con Manifesta12 a Palermo per l’evento collaterale nel Museo Geologico della città dove sono stati coinvolti artisti di differenti generazioni. Sempre nel 2018 pubblica il libro “Oltre i colori come tabù” attorno alla storia dell’arte italiana dagli anni ’60 agli ‘80 e di come può essere interpretata oggi in un’era post-internet. Nello stesso anno è uscito anche il suo libro dal titolo Making Time sul tema della narrazione al tempo della post-verità analizzata attraverso il lavoro di tre artisti che lavorano sulle immagini in movimento dagli anni ‘90: Grazia Toderi, Slater Bradley e Park chag-kiong. Nel 2017 cura la mostra collettiva dal titolo “Io sono qui” al Museo Macro Testaccio di Roma e la mostra “Il frammento come strumento”, presso gli spazi della Galleria Enrico Astuni di Bologna, coinvolgendo Piero Gilardi, Maria Thereza Alves e Oysten Aasan. Sempre nel 2017 realizza il libro monografico su David Medalla oltre a curare la mostra di Eliseo Mattiacci per la Galleria Poggiali di Firenze per cui pubblica il libro dal titolo “Misurazioni”. Nel 2016 è stato consulente per la nuova apertura del Museo Pecci di Prato, sotto la direzione di Fabio Cavallucci, oltre ad aver pubblicato il libro “66/16. Ieri, oggi, domani eccetera” (Prearo Editore versione italiana, Sputink editions versione inglese) incentrato sulla smaterializzazione dell’opera d’arte dagli anni Sessanta ad oggi. Negli anni precedenti è stato curatore per differenti istituzioni museali italiane e straniere tra cui il centro d’arte Karst a Plymouth (Uk), il Museo RISO di Palermo, il Museo KCCC di Klaipeda, in Lituania; HISK a Gand in Belgio. E ancora alla Fondazione Lanfranco Baldi di Firenze, il Musée d’art modern de Saint-Etienne Métropole, Francia. La sua pratica curatoriale di ricerca lo ha portato a dare vita a differenti cicli di mostre, sempre intese come piattaforme di riflessione teorica e pratica, tra queste sono da segnalare quelle sull’idea di paesaggio contemporaneo, del viaggio all’epoca di Google Maps, sulla temporalità della scultura contemporanea, della tradizione pittorica astratta dopo la diffusione degli schermi digitali, sulle interazioni tra la performance, il video e il sound design fino a quello – ciclo di mostre dal 2005 al 2010 realizzato presso lo spazio di ViaNuova arte contemporanea di Firenze – sull’eredità del Modernismo.
Giu08
Camilla Boemio da Roma
La tua nuova ritualità quotidiana…
Nella natura ho ritrovato l’equilibrio, la forza e la capacità di applicare un’estetica ecologica che vada completamente ad interagire con la dimensione “del sublime naturale”. Trovo sia talmente dirompente ed ovvio nello stesso tempo il concetto esternato da David Hockney in un’intervista di un mese fa “ricorda che non possono cancellare la primavera” (1). Così è stato per me, un riprendersi il contatto viscerale con gli elementi naturali.
La mia giornata inizia nelle prime ore del mattino, si sviluppa nel lavoro attento all’orto, alla cura dei fiori e delle piante nel parco della proprietà. Una parte della giornata la dedico ai progetti d’arte che sto integrando, e sviluppando.
Con quali oggetti e spazi del suo quotidiano sta interagendo di più?
L’avere deciso di trasferirmi dalla città alla campagna mi permette di fruire del dono più importante che potevo ricevere, avere a disposizione un orto, un giardino ed un bosco. Ogni giorno mi confronto con la natura, nel periodo più bello dell’anno: la primavera (ormai inizio estate). Quando sono in casa lo studio è la stanza nella quale trascorro più tempo. I libri sono in assoluto gli oggetti con i quali sto interagendo di più, ai quali si aggiungono i dvd dei film e di video arte.
Musei e gallerie hanno reagito al momento con la digitalizzazione e la virtualità. Quali sono le tue “strategie” per instaurare nuove relazioni?
Indubbiamente è stato un momento particolarmente importante per i musei italiani per iniziare un utilizzo mirato del digitale. Ci sono vari casi virtuosi tra i quali: il Museo Egizio di Torino, la GAMeC con la piattaforma per il live streaming Radio GAMeC oltre a Palazzo Corsini e la Galleria Corsini, a Roma, che utilizzano il digitale da molto tempo con una consapevole maestria.
Se si pensa che la Tate Modern ha pubblicato la strategia sul digitale nel 2013, e i suoi obiettivi sono stati fissati per il 2015; non è rincuorante il “caso italiano del musei”.
La giusta mentalità che un’istituzione dovrebbe avere, in modo da distribuire i suoi sforzi digitali, prevede l’accessibilità, l’interpretazione, la comunicazione delle collezioni e la ricerca.
Oltre a fornire contenuti validi ai pubblici esistenti e a quelli nuovi, dovrebbe creare e coltivare una comunità coinvolta nell’arte.
Le mia strategia si va a incanalare nei contatti precedentemente sviluppati. Abbiamo appena concluso un progetto con l’Arts Council England e, attraverso i contatti sviluppati, stiamo cercando di intensificare le progettualità dei prossimi mesi.
Quando tutto questo finirà: una cosa da fare e una da non fare mai più.
Se vogliamo imparare dal collasso scaturito dalla pandemia, e dalle concause annesse, si dovrebbero riscrivere le “regole” dell’arte contemporanea partendo dal desiderio di sostenere una graduale affermazione del sistema verso un’intensificazione del senso di etica, solidarietà, collaborazione a sostegno di progetti artistici corali e di ricerca. Forse una nuova era sarà possibile, dipende anche da noi.
Sono nati nuovi luoghi e spazi alternativi di coesione intorno a te? (pensiamo alle corti dei palazzi, ai terrazzi ecc…).
Offrire dei punti di vista poliedrici, delle direttrici che possano connettersi con altre realtà, che creino delle ibridazioni. In questo momento più che portare degli esempi potenziali, mi permetto di elencare negli articoli, che sto scrivendo, quei progetti che partono “dal basso” che si estendono nei luoghi pubblici delle città attirando l’attenzione e scuotendo gli animi.
In qualche modo sento che questa formula appartenga a una esperienza sperimentale, composta da più voci, da più collaborazioni nelle quali ha preso forma un’azione in un momento portante per la discussione sul clima e la responsabilità civile, ma anche la capacità dell’arte di re-attivare il tessuto sociale non aspettando scatti quel sostegno da parte delle istituzioni pubbliche così auspicato in Italia.
Ho curato, con AAC Platform, tre mostre pop-up del progetto Purple Window Gallery, con il fotografo David Stewart e gli artisti Maria Elisa D’Andrea e Sean Gall. Questo progetto corale nasce a Chicago per diffondersi in altre comunità di artisti: dall’Australia all’Inghilterra, a Roma.
Ho seguito in modo attento anche altri progetti d’arte che hanno attivato un senso reale di comunità; in particolare modo Artists in Quarantine nato dall’interazione della confederazione internazionale di musei: il Reina Sofía di Madrid, il Van Abbemuseum di Eindhoven, SALT online, i Musei di arte moderna di Varsavia e Anversa, MACBA Museu d’Art Contemporani de Barcelona, M HKA con L’Internazionale; la cui collaborazione si basa sul dialogo e la condivisione di visioni e ricerche.
In questi due progetti etici i balconi e le finestre sono diventate un’appendice del pensiero, un modo per contrastare la solitudine, l’ansia e per accaparrarsi di concetti di solidarietà, influenzare esperimenti di integrazione urbana nei quali spingersi oltre il solito modo nel quale proporre arte.
(1) Tratto dall’articolo del The New York Times “Artists Are Hunkered Down, but Still Nurturing Their Inner Visions” scritto da By Ted Loos, publicato il 21 aprile, 2020.
Camilla Boemio è una scrittrice d’arte, curatrice di ricerca e teorica la cui pratica indaga l’estetica contemporanea. Osserva il ruolo svolto dall’attivismo politico, e dalle forme di socializzazione influenzate dai media e dall’immagine in movimento; è associata all’AICA (International Art Critics). I recenti progetti curatoriali includono la mostra Jérôme Chazeix: The coat of hipness (materiali velati) realizzata nel calendario di Altaroma2020, da Label201 a Roma (2020); il progetto sviluppato con l’Arts Council England con l’artista Marina Moreno (2019-2020), la mostra di Marc Trujillo: Fast da AOCF58 – Galleria Bruno Lisi, a Roma (2020) e con AAC Platform ha curato delle mostre pop-up per il progetto Purple Window Gallery (Chicago).
Un suo saggio si trova nella pubblicazione ROAR edita dalla Cambridge School of Art, che esplora come le strategie artistiche ed estetiche affrontino i concetti di sostenibilità; e il suo recente volume As Brilliant As the Sun pubblicato da Vanillaedizioni ricostruisce un viaggio nelle pratiche artistiche della California ed intorno la città di Roma creando un legame tra due luoghi d’arte accomunati da analogie e contraddizioni. http://www.camillaboemio.com/associazione.html
Giu08
Stefano Monti da Roma
Com’è cambiato il tuo modo di lavorare?
Monti&Taft è attiva in differenti segmenti culturali e questo ci permette di affermare che gli effetti che l’emergenza ha generato sulla cultura non sono stati del tutto omogenei.
Sul versante interno, la condizione ha modificato poco la nostra quotidianità: con un team distribuito in varie zone d’Italia e d’Europa, il lavoro a distanza è da anni la nostra normalità.
Ciò che è cambiato è il rapporto con le organizzazioni e con le imprese culturali con le quali lavoriamo. In alcuni casi, l’emergenza ha portato a maturazione dei percorsi di “digitalizzazione” e di attitudine proattiva sui quali lavoravamo da tempo. In altri, invece, abbiamo dovuto far fronte ad un dilazionarsi di tutte le scadenze, soprattutto nei casi di diretta relazione con il settore pubblico.
In generale, curando gli aspetti più prettamente di management, ciò che ha maggiormente influito è sicuramente l’incremento del livello di incertezza, che ancora oggi continua a destabilizzare parte del sistema produttivo culturale e creativo.
Stiamo capendo che si può vivere con meno mobilità?
Stiamo forse capendo che è necessario vivere con una mobilità “migliore”. Per quanto avanzate potranno essere le nostre tecnologie, ci sono cose che non possono essere digitalizzate: già da qualche anno progetti come il Google Cultural Institute o Europeana rendono disponibili opere d’arte in modalità digitale, talvolta con risoluzioni tali da rendere visibili su tablet e pc dei dettagli che ad occhio nudo, in un museo, potrebbero anche sfuggire. Vedere un’opera d’arte dal vivo però è diverso. La chiave non è “sostituire” quanto piuttosto “integrare”.
Il grande riconoscimento dei servizi digitali può creare un modo nuovo di organizzare il nostro tempo. Se creiamo servizi idonei, possiamo scegliere per quali attività è necessario essere presenti fisicamente e per quali attività la nostra presenza fisica non apporta valore aggiunto.
Meno commuting time e più tempo libero per spostarsi verso musei, mostre, città d’arte o piccole realtà, sfruttando il lavoro digitale per permettere anche viaggi nei giorni feriali. Questo potrebbe migliorare di molto la vita delle persone e beneficiare anche i consumi per attività culturali e turistiche.
Quando tutto questo finirà: una cosa da fare e una da non fare mai più.
Una cosa da fare: proseguire l’azione economica e di governo con la medesima voglia di riscatto che gli italiani hanno mostrato all’inizio dell’emergenza. Entusiasmo, solidarietà, disciplina: sono questi i tratti che gli italiani, con loro stessa gran sorpresa, hanno mostrato di avere e che ci hanno permesso di limitare al minimo le conseguenze di un fenomeno nuovo, a cui né i cittadini, né i decisori pubblici, erano preparati.
Una cosa da non fare mai più: essere generici, approssimativi, “faciloni”. Abbiamo provato nella nostra condizione quotidiana e concreta il concetto di “responsabilità personale”. Riprendere a comportarci come se le nostre azioni non avessero effetti sulla nostra società non sarebbe irresponsabile, sarebbe stupido. Allo stesso modo, il dibattito pubblico dovrebbe dismettere la facile retorica generalista e iniziare ad entrare nel dettaglio delle questioni. Durante questo periodo ci siamo resi conto di quanti “parolieri” abbondino nei convegni e nei talk-show. L’esigenza di concretezza non deve essere perduta. Ritornare ad accontentarsi di un dibattito senza significato sarebbe cedere alla distrazione di massa. Essere leggeri è importante: per questo esiste l’entertainment. Affrontare tutto con leggerezza è un errore che non possiamo più permetterci.
Stefano Monti, partner Monti&Taft, insegna Management delle Organizzazioni Culturali alla London School of Economics. Con Monti&Taft è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisory, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di un decennio fornisce competenze a regioni, province, comuni, sovrintendenze e ha partecipato a numerose commissioni parlamentari. Si occupa inoltre di mobilità, turismo, riqualificazione urbana attraverso la cultura. È autore e curatore di numerosi libri e frequente relatore di convegni. Il suo obiettivo è applicare logiche di investimento al comparto culturale. http://www.monti-taft.org/
Giu06
Annalisa Ferraro da Napoli
Con quali oggetti e spazi del suo quotidiano stai interagendo di più?
Nella mia nuova casa a Napoli, in cui mi sono trasferita circa un anno prima della quarantena, non avevo mai trovato le giuste condizioni per lavorare nel mio piccolo studio, stanza che avevo fortemente voluto, ritenuta da me indispensabile per affrontare impegni e scadenze professionali. Durante la quarantena, invece, la mia scrivania, la lampada dalla luce soffusa, la postazione pc, sono diventati il mio spazio sicuro, il luogo in cui rifugiarmi per credere che la normalità, la mia routine, le mie abitudini fossero salde e sicure almeno lì. Più che una stanza dell’illusione, mi piace definirla la mia stanza della speranza, l’àncora a cui mi sono aggrappata quando tutto sembrava spaventosamente immobile e silenzioso, alterato nel profondo. Devo dire che però anche qualche sana, divertente e competitiva partita alla x-box mi è servita da carica per superare infinite giornate sempre uguali a se stesse.
Abbiamo a che fare con un tempo e uno spazio nuovi. Cosa stai scoprendo o riscoprendo di te?
La forza, la tenacia, l’entusiasmo, ma anche la capacità dell’autoassolvimento. Ho sempre pensato di essere una persona troppo sensibile per essere veramente forte, troppo perfezionista per essere davvero sicura di me e dei risultati raggiunti, troppo ambiziosa per potermi dare una tregua. Eppure, questa pausa forzata, per me come per tanti altri, si è rivelata un buon momento per conoscersi di nuovo, per approfondire cambiamenti che avevo consciamente o inconsciamente attraversato ma che non avevo mai avuto il tempo di esaminare. Ho scoperto quindi la capacità di autoassovilmento, perché tanti dei buoni propositi della quarantena non sono riuscita a rispettarli. Mi sono sforzata di perdonarmi, perché ho capito quanto fosse importante imparare a rispettare il proprio corpo ma forse ancora di più la propria mente. In un periodo così vuoto eppure così pieno e pesante, ho capito che darmi obblighi, caricarmi di impegni, prefissarmi dei risultati da raggiungere non mi avrebbe dato tempo e modo di capire ciò che stava accadendo attorno a me, ciò che stava accadendo in Italia e nel mondo, e dopo non ne sarei uscita arricchita, né più acculturata per i libri letti o i webinar seguiti, piuttosto certamente inaridita, completamente alienata, di certo più inconsapevole. Bisogna avere il coraggio di accettare la paura, la nostalgia, la tristezza, io ho provato a farlo ogni giorno durante la quarantena, nella certezza che quello fosse il primo passo da compiere per un buon superamento di ciò che stava avvenendo.
Ho scoperto però anche la forza, la tenacia e l’entusiasmo del “dopo”, perché sono carica come forse non mi sentivo da molto tempo, desiderosa e impaziente di dedicarmi al mio lavoro, a vecchi e nuovi progetti, a quelle collaborazioni professionali sane e proficue che da tempo mi impegno a coltivare. Sono convinta che molti professionisti del mio settore e molte piccole e medie realtà artistiche e culturali attive sul territorio nazionale abbiano imparato tanto da questo periodo buio. Penso che sia il momento giusto per tornare a dare spazio a progetti di qualità, che interagiscano con quell’immenso substrato storico, storico-artistico e paesaggistico che rende l’Italia un Paese unico al mondo, e mettano a frutto quella creatività e quello spirito di innovazione che da sempre identificano il nostro popolo. Penso anche che sia giunto il momento di investire sul nostro contemporaneo, per premiare le ricerche, l’impegno e i sacrifici dei nostri artisti. Sono convinta che sia arrivato il tempo di recuperare il valore della cultura diffusa e collettiva, in grado di muoversi trasversalmente nella società e di occupare ogni luogo sociale, perché mai prima di ora avevo avuto la così netta sensazione che proprio nella cultura, nell’arte, nella conoscenza il popolo avesse provato a trovare serenità e pace, la forza per affrontare l’isolamento e per superare il distanziamento sociale. Bisogna ripartire da queste impellenti necessità e da queste importanti risposte del pubblico, e fare tesoro di quell’atto del reinventarsi che i musei, le gallerie, le fondazioni, le associazioni, i liberi professionisti hanno dovuto e saputo mettere in campo in tempi record, conservandolo e reinvestendolo in nuove prospettive. Abbiamo davanti una possibilità unica, più che ricostruire per ripartire, ricostruire per migliorare, non possiamo correre il rischio di sprecarla.
Cosa ti manca? La tua personale esperienza dell’“assenza” e della “mancanza”.
Non sono una persona a cui piace prendere parte alla vita mondana, non amo uscire tutte le sere e non frequento moltitudini di persone. Mi piace però poter curare i rapporti, stabilire un contatto frequente e costante con le persone a cui voglio bene, prendermi cura di quelle relazioni umane in grado di arricchirti, compensarti, accompagnarti in un percorso di vita. Quindi, se dovessi parlare delle mie più sentite mancanze durante la quarantena, parlerei sicuramente dell’assenza forzata di contatto umano, della lontananza, non quantificabile in kilometri, che ha separato me, la mia famiglia e quelle persone che fanno parte del mio quotidiano.
Al secondo posto metterei sicuramente i viaggi. Anche qui faccio una premessa che ritengo importante. Non sono una di quelle persone che approfitta di ogni weekend per macinare km in auto, in aereo, in treno per raggiungere mete da sogno. Amo godermi la città in cui vivo, amo godermi i momenti di relax nella mia casa, recuperare energie e fiato nella mia quotidianità. Negli ultimi anni però il mio lavoro mi ha portato a viaggiare molto, a scoprire nuovi borghi, nuove città, nuovi paesaggi, e a stabilire lì dei contatti che, seppur probabilmente solo di passaggio nella mia vita, risultano essere importanti nel mio percorso attuale. Questo sì, questo mi è mancato molto, poter tornare in quelle che per me diventano seconde, terze, quarte case, e chi mi conosce sa che quelle città si trasformano facilmente per me in luoghi del cuore.
Musei e gallerie hanno reagito al momento con la digitalizzazione e la virtualità. Quali sono le tue “strategie” per instaurare nuove relazioni?
Senz’altro anche nel mio caso la digitalizzazione dell’offerta, per quanto compatibile con gli eventi in programma e con gli obiettivi prefissati, è stata la prima strategia adottata per mantenere vivi i rapporti già instaurati e per stabilire nuove relazioni. La fruizione in virtuale ha garantito a me e a tanti altri professionisti del settore di non restare immobili dinanzi a ciò che stava accadendo, consentendo di portare sì avanti alcuni impegni lavorativi ma soprattutto di giocare un ruolo fondamentale, di supporto e di svago, in un momento delicato e decisivo come quello della quarantena cui eravamo stati tutti sottoposti. Nell’ambito del progetto TraMe – Tracce di Memoria (www.tra-me.org/), di cui sono curatrice, con il team dell’agenzia The Uncommon Factory, si è deciso di aderire alla campagna social #iorestoacasa e di accogliere l’invito del Ministro Franceschini di incrementare la diffusione di contenuti culturali tramite i canali web, ripensando in versione digital alcune delle attività previste in calendario. Abbiamo esplorato soluzioni che ci hanno poi permesso di rafforzare l’interazione con i reatini, principali destinatari della nostra iniziativa, ma anche di incrementare il dialogo con il pubblico nazionale, sfruttando al meglio il tempo che le persone costrette alla quarantena avrebbero trascorso on line. L’attività che ha subito maggiori trasformazioni è stata “Il dialogo della conoscenza”, la nostra summer school fotografica, destinata alle ragazze e ai ragazzi di Rieti e provincia, ancora in età scolastica.
Pensato per essere sviluppato nella città di Rieti, attraverso lezioni frontali ed esplorazioni del territorio, volte a cogliere le specificità del contesto naturale e urbano dell’area reatina, il corso si è arricchito, per la situazione sanitaria attuale, di due fasi iniziali nuove: lezioni tecnico-conoscitive in versione e-learning da un lato e una nuova esperienza di ricerca e sperimentazione negli spazi intimi delle abitazioni, nei luoghi in cui gli studenti stavano trascorrendo la loro quarantena, dall’altro.
Se è vero che i progetti culturali devono dialogare con la società a cui si rivolgono e devono rispecchiare l’epoca storica nella quale sono stati calati, allora si è reso quanto mai necessario che il corso di fotografia “Il Dialogo della Conoscenza” si modificasse durante il 2020 per farsi testimonianza di quanto stava accadendo in Italia e nel mondo, rendendosi strumento utile per superare la crisi individuale e collettiva che le persone erano state costrette ad affrontare a causa della diffusione del Covid-19.
L’offerta culturale, anche nella sua versione digitale, ha dimostrato di essere assolutamente in grado di creare valide occasioni di confronto, di approfondimento e di scambio, contribuendo a rendere più leggero il peso della temporanea condizione di isolamento imposta dalle restrizioni nazionali e offrendo stimoli, svaghi e spunti di riflessione. Ha dimostrato inoltre di avere il grande potere di superare ogni confine geografico e qualsiasi limite generazionale, rendendoci fieri di richieste di iscrizione provenienti da ogni parte d’Italia da parte di persone di ogni età.
È chiaro che il confronto de visu tra un docente e uno studente, tra un docente e la sua classe resterà sempre motivo di arricchimento umano e professionale, per entrambe le parti, ma in situazioni di necessità, è stato importante sperimentare nuove metodologie e testarne i risultati. Siamo molto orgogliosi di quanto portato avanti ma soprattutto siamo felici di aver offerto al pubblico del web uno spazio di formazione, un momento di riflessione e l’occasione per un approfondimento sociale e culturale.
Annalisa Ferraro. Storica dell’arte, laureata presso l’Università Federico II di Napoli, specializzata nella valorizzazione e conservazione dell’arte contemporanea.
Dal 2015 collabora con l’Associazione I Martedì Critici. È stata Curatrice Associata delle Residenze d’Artista BoCs Art, progetto di rilievo internazionale che dal 2015 al 2017 ha coinvolto oltre 300 artisti, ed è autrice del volume Bocs Art. Residenze d’artista Cosenza 2015/2016.
È consulente presso l’agenzia The Uncommon Factory di Roma, per le attività storico-artistiche.
Ha curato eventi ed esposizioni in tutta Italia e ha collaborato con alcune tra le più note riviste di settore. Dal 2019 ricopre il ruolo di responsabile artistica e curatrice del progetto TraMe-Tracce di Memoria, una rassegna di eventi sostenuta dalla Regione Lazio e dai Fondi FESR.
Giu05
Raffaele Quattrone da Bologna
La tua nuova ritualità quotidiana…
Il 2018 e il 2019 sono stati per me due anni molto frenetici in quanto alla mia normale attività si è aggiunta la scrittura e promozione di un nuovo libro e parallelamente la scrittura, interpretazione e promozione di un documentario che mi ha portato in giro per il mondo. Per cui avevo la necessità, sentivo la necessità di fermarmi, di riposarmi ma poi capitava sempre qualcosa di nuovo che mi portava a rimandare il periodo di riposo, a spostarlo più avanti. Da questo punto di vista l’epidemia ha dato uno stop a tutto e mi ha imposto di fermarmi a riposare ma anche a maturare una maggiore consapevolezza rispetto a quello che stavo facendo e quello che avrei voluto fare. Improvvisamente non ero più in viaggio o circondato da persone ma ero a casa, a Bologna, da solo, impossibilitato come tutti a muovermi anche solo per visitare la mia famiglia che abita in un’altra nazione. Fin dall’inizio però mi sono sforzato di vedere il bicchiere mezzo pieno innanzitutto perché ero sano, perché conservavo un lavoro ed uno stipendio e poi perché avevo finalmente il “tempo” che qualche volta mi ero lamentato di non avere. È questa una grande ricchezza della quale spesso ci dimentichiamo. L’epidemia è stata devastante per le persone ammalate, morte, rimaste senza lavoro o senza soldi… ma ha avuto anche una forza rigenerativa rispetto a tutto quello che abbiamo sempre rimandato, che ci siamo “tirati dietro” con l’idea che un giorno ci avremmo “messo le mani”. Ecco, quel giorno è arrivato.
Come è cambiato il tuo modo di lavorare?
È dalla seconda metà di febbraio che non viaggio più e lavoro come la maggior parte di noi con pc, telefono, email, videochiamate, ecc. Dovevo essere in Sudafrica e poi a New York per partecipare a dei festival dove era stato selezionato NewFaustianWorld e mi sono trovato comodamente a casa in videoconferenza. Il contatto umano però mi è mancato moltissimo. È sicuramente più comoda la videoconferenza ma è anche meno emozionante della presenza fisica. Ho scoperto la bellezza di scrivere sui fogli, di fare la “brutta e bella copia”, sempre riciclando la carta e stando attento a non sprecarla. Ho riscoperto un modo di lavorare più lento ma molto più riflessivo e consapevole. Ho potenziato molto la fase della progettualità in modo tale da essere subito operativo quando magari torneranno le condizioni per riprendere le nostre attività a 360°. Il mio nuovo modo di lavorare è imperniato sullo slow living, sul rallentamento dei ritmi lasciandomi ispirare da ciò che mi dà serenità e benessere.
Cosa ti manca? La tua personale esperienza dell’assenza e della mancanza.
Mi manca la mia famiglia ed i miei affetti. Cerco sempre di essere il più possibile fisicamente presente ma in questo periodo mi è stato impossibile. Per quanto possano essere frequenti le videochiamate che aiutano tantissimo per carità, il contatto fisico è un’altra cosa e trovarsi improvvisamente lontani non è facile.
Come immagini il mondo quando tutto ripartirà?
Il mio timore più grande è di ritrovare il mondo esattamente come l’ho lasciato dimostrando di non aver capito nulla dalla lezione che ci ha dato l’epidemia. Abbiamo agito fino ad oggi con la “smania di Faust” che non si accontenta mai. Il progresso, l’andare sempre e comunque avanti è diventato alla fine, scusa il gioco di parole, fine a se stesso. Abbiamo perso di vista la meta, dove stavamo andando. È arrivato il momento di fermarsi e fissare tutti insieme una nuova meta, senza lasciare indietro nessuno. L’epidemia ha dato luogo a tantissime forme di collaborazione, di aiuto reciproco, un’umanità che ci eravamo dimenticati potesse esistere. Ecco ripartiamo da qui, mi sembra un buon punto di partenza.
Quando tutto finirà: una cosa da fare e una da non fare più.
Ne ho più di una da fare e da non fare!! Da fare: trovare sempre il tempo per la famiglia, gli amici, le persone alle quali si vuole bene e trovare sempre il tempo e il modo per dire che si vuole loro bene. Sfruttare sempre quindi le opportunità che ci capitano senza darle per scontate o senza rimandarle a domani. Se abbiamo il tempo di farle oggi, facciamole oggi. Non fare mai più: di non pensare agli altri. L’epidemia ci ha insegnato quanto siamo legati, quanto le scelte di uno possano influenzare la vita degli altri. In altri termini proviamo a vivere più responsabilmente per noi, per gli altri, per l’ambiente che ci ospita.
Raffaele Quattrone è un sociologo e curatore di arte contemporanea che vive tra Bologna e Roma. Collabora con il Wall Street International magazine e la Real Academia de Espana en Roma. Tra i suoi libri IN ITINERE. Arte contemporanea in trasformazione (2014, Equipèco Edizioni) con un’introduzione di M. Pistoletto e una conversazione con l’artista cinese Wang Qingsong e NewFaustianWorld (2018, 24 ORE Cultura). Nell’ultimo periodo ha collaborato al libro di Xose Prieto Souso, El ùltimo Espaliù, pubblicato a marzo 2020 da AECID Publicationes, Madrid. Il documentario NewFaustianWorld (diretto da Piero Passaro e tratto dal suo ultimo libro) nel mese di maggio è stato premiato come miglior documentario straniero al RAGFF New York City. www.raffaelequattrone.com
Giu09