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Gabriele Perretta da Roma

Abbiamo a che fare con un tempo e uno spazio nuovi. Cosa stai scoprendo o riscoprendo di te?
Quando gioco una partita a scacchi, di norma costruisco le demarcazioni del sentiero. In un primo momento tutto fa un effetto un po’ disorientante, ma quando ho terminato la costruzione giunge quel momento di meraviglia su quanto netto e autoriflesso, quanto elegante, quanto perfetto appaia l’insieme nella sua forma compiuta. Anche quando osservo la scacchiera – e ad uno storico dell’archeologia moderna capita davvero molto di frequente – faccio spesso la stessa esperienza: parecchie cose che nel particolare sono disorientanti, nell’insieme sono sempre perfette.
Quando devo prendere una decisione importante, a volte non ho l’impressione che il mio gioco corrisponda ad un resistere. È troppo forte la sensazione che una strada sia quella diacronica, che un’altra scelta potrebbe essere sincronica al tempo della partita e del mio isolamento, e conduca in un percorso stesso della scacchiera. Quando è in ballo qualcosa di importante, qualche mossa decisiva, mi sforzo con fatica di non tralasciare, se possibile, alcun fattore che potrebbe avere una sua importanza. Una volta che la mossa è decisa, la maggior parte delle difficoltà previste si dileguano da sole. Il progetto di una ulteriore mossa sgombra sempre una via e, all’improvviso, non sono più arenato lì, irresoluto, ma sono tornato nel flusso del gioco.
Sono rare le decisioni per cui non mi abbandona il dubbio che abbiano potuto essere sbagliate, ma ci sono. Dopo, ho avuto la sensazione che niente sia davvero in armonia e che tutto ciò che risulta da questa scelta sia duro e faticoso. I dubbi della situazione in cui ho deciso e tutte le riflessioni tornano a farsi sentire e vogliono essere pensati e ripensati. Che cosa non ho visto, che cosa avrei dovuto dire e giocare in un altro modo, come posso rettificare, esiste forse una nuova possibilità di decidere, è tutto finito per sempre? Niente è più opprimente della sensazione di aver fatto la scelta sbagliata. Non altrettanto brutta, ma spiacevole lo stesso, è l’impressione di essersi lasciati sfuggire una possibilità, di aver persistito nell’irresolutezza troppo a lungo. Essersi lasciati scappare l’opportunità che esisteva. Ci sono state giornate in cui tutte queste occasioni mancate e le decisioni prese, forse sbagliate, durante una partita, mi danno tanto da riflette che quasi non riesco a pensare ad altro.
La resistenza solitaria, la resilienza volontaria è un’incredibile sfida a questo rompersi la testa, a questa rabbia, a questo preoccuparsi. Ma quando mi trovo in mezzo alle decisioni, non so se riesco davvero ad aprirmi al labirintico messaggio della scacchiera. Sembra essere tutto troppo facile e di avere troppo poco a che fare con la realtà. Il labirinto dice: sei sulla strada giusta, non esiste una decisione sbagliata. Abbi fiducia, rilassati, in questa quarantena. Ogni giocata di scacchi a posteriori – se nel punto giusto ho preso davvero la diramazione giusta – è nulla, perché non esistono altre partite se non i Finali di Partita scritti da Marcel Duchamp. Per te esiste soltanto quell’unica strada. Ed esistono soltanto lo stare fermi, o il proseguire nella solitudine, dove scoprire e riscoprire se stessi, assimilando nel proprio quotidiano il riflesso degli specchi di Pistoletto. Non ci sono vicoli ciechi, ma solo autodeterminazioni.
Quando sprofondo in mezzo al dubbio dello scacco matto, sulle mie decisioni, non lascio che il labirinto e il suo messaggio siano validi. Ci sono abbastanza argomenti contrari. La scacchiera descrive di certo anche solo una parte della verità sull’esistenza della quarantena. Decisioni errate, strade sbagliate ce ne sono abbastanza nella storia del mondo e di ogni individuo. Il messaggio di Duchamp delle sue strategie, a contatto col Covid 19, è facile da contestare. Eppure non posso ugualmente sottrarmi alla sfida: scacchiera, libri e nuova ritualità quotidiana…, vai avanti, va bene così.
Proprio quando vedo le cose in tutt’altra maniera, l’immagine del libro di Duchamp sugli scacchi, più la scacchiera davanti a me mi dicono: le cose sono così come sono e vanno bene così. Questo è il messaggio che allora si fa sentire sottovoce dentro di me. Che succederebbe se fosse davvero così? Che cosa accadrebbe se ogni decisione della mia vita fosse stata giusta? Giusta e necessaria per il mio cammino, verso l’arte e la letteratura concettuale? Ho preso l’abitudine di ripetere un breve modo di dire, costituito da solo quattro parole e da solo quattro mosse scacchistiche: “Va bene lo stesso”. Quante volte queste quattro mosse hanno disteso una situazione, posto fine a una crisi. Come se si aprisse una porta. Come se lo spazio intorno a me si allargasse. In queste quattro mosse si esprime una fiducia concettuale verso lo scacco matto, racchiusa nella mia anima anche quando tutto sembra dire il contrario. Sono un essere umano con tratti spigolosi e appuntiti, difetti ed errori, ma va bene lo stesso. Percorro una strada, a ridosso del Covid 19, piena di dubbi e deviazioni, ma va bene lo stesso. Vivo in un mondo che sembra un dedalo in cui ci si perde, ma che in realtà è una partita a scacchi.

Musei e gallerie hanno reagito al momento con la digitalizzazione e la virtualità. Quali sono le tue “strategie” per instaurare nuove relazioni?
È con impetuosa evidenza che la tecnica ha assunto oggi, nel mondo occidentale e in quello occidentalizzato, un posto di rilievo, impregnando di sé il modo di pensare, il modo di vedere e di vivere, sia dei singoli individui che della società nel suo insieme. Il dibattito sulla tecnica è divenuto un problema e una realtà su cui riflettere con urgenza, per scoprire e analizzare di essa le connessioni, non solo in termini di conoscenza, ma anche in relazione a quanto sia stata in grado di incidere – e incide ancora oggi più che mai – sul concetto di Storia da vedere e da vivere nel percorso museale: sulla concezione di contenitore espositivo ufficiale; sulla definizione del potere e delle forze sociali che lo amministrano; sulla coscienza e sulla sensibilità degli individui intesi come soggetti umani e sociali. Individuare il significato della tecnica, porta a svelare il senso all’interno della storia e il valore che essa è andata assumendo nella vita dell’artista. Il potere della tecnica, sia esso impiegato dall’artista, oppure espresso utilizzando l’artista come funzionario di un sistema che lo sovrasta, è in grado di modificare la realtà. Agendo sull’ingannevolezza a cui possono andare incontro i sensi umani, la tecnica è in grado di ritoccare le prove e con esse di indirizzare il consenso, l’accettazione, la tendenza, il disappunto e ogni altro senso di realtà sociale e individuale. La tecnica è biopotere e come tale ha la virtualità di autolegittimarsi. L’informatizzazione generalizzata ha oggi lo scopo di ottimizzare le prestazioni del sistema di comunicazione museale, conseguendo l’autolegittimazione mediante la produzione, la memorizzazione, l’accessibilità e l’operabilità delle informazioni. Una domanda a cui il Museo sottopone il regime di risposte immediate, non senza aver prima sviluppato un approfondito confronto tra memorie espositive e idee per il futuro, è ad esempio se sia il caso oppure no di adottare gli stessi strumenti informatici, particolarmente avanzati, per controbattere l’incedere dello strapotere messo in atto dalla tecnica per la tecnica del sistema liberista. Certo la scelta può indirizzarsi verso il sì (pur con molte riserve), ove si consideri la tecnica come strumento del potere umano. La situazione molti anni fa era indubbiamente ancora aperta, ma sicuramente oggi alle nuove soluzioni digitali e alla nuova pratica virtuale vanno aggiunte delle politiche atte alla comprensione della sfera pubblica, più che delle strategie funzionali solo al mondo della finanza liberista.

Come immagini il mondo, quando tutto ripartirà?
Il discorso sul futuro si è sviluppato, in queste ultime settimane, in tutto il mondo, come una vera e propria questione: non solo domanda, ma anche controversia; non solo conflitto di opinioni, ma anche problema posto con volontà di giungere ad una soluzione comune, per dare alla futurologia la fisioniomia di scienza. Il fatto stesso che questo discorso venga messo in campo, dimostra che il suo oggetto aggredisce prepotentemente l’intelligenza progettuale dell’artista contemporaneo. Il quale, mai come nei nostri giorni di un presente sempre più angosciosamente problematico, vuole scientificamente non solo conoscere, ma anche costruire il suo avvenire. Voglio dire che, dalla costruzione della futurologia come scienza, anzi come scienza nuova, non se più dissuasi dalla preoccupazione che in essa impegnandosi, si possa e si debba subire il peso, scientificamente fuorviante, dei desideri, delle speranze, dei timori, degli ideali. Una corretta pedagogia dei bisogni è resa oggi ancora più urgente dalla pressione suadente del liberismo finanziario. Questo infatti ne enfatizza alcuni aspetti, facendone dimenticare altri, e soprattutto ne induce di superflui, distogliendo da quelli più fondamentali e veri.
Non è possibile essere passivi dinanzi ai nostri bisogni simbolici, culturali ed economici, occorre discernerli con saggio realismo. I bisogni, come gli artisti, vanno innanzitutto riconosciuti e chiamati per nome. Occorre evitare con cura due opposti estremismi: quello di chi si consegna passivamente all’attuale esperienza del Covid 19, assolutizzandola; e quello di chi si illude di poterli ignorare o rimuovere e invece continua a coltivarli in maniera camuffata. Ogni bisogno simbolico è parola da ascoltare, leggere, interpretare alla luce dell’unità della persona. La riscoperta della natura profonda trova, nella «teologia della mente ecologica», il fondamento e la giustificazione.
Benché il corpo umano possieda una reale qualità salvifica, tuttavia nell’Eone presente, la salvezza resta una realtà di grazia e, dunque, un fatto interiore e limitato «all’anima di Gaia». È ben vero che, nel tempo presente, la corporeità si presenta come corpo del male rispetto alla natura; ma la conoscenza dell’ecologia della mente insegna che la salvezza definitiva, nel tempo etico finale, avrà luogo nella corrispondenza di ragione e sentimento, tra «post-estetico» ed «etica della liberazione».

Gabriele Perretta è noto come scrittore, critico d’arte, semiologo della comunicazione, propugnatore della “teoria critica intermediale”, che egli stesso alla fine degli anni ’80 ha definito Medialismo. Da lì sono innumerevoli le manifestazioni e le mostre che ha curato in spazi pubblici e privati, da Medialismo (Trevi Flash Art Museum 1993), a Segnali d’opera – Arte e digitale in Italia (Museo di Gallarate, 1997), fino a Stendale (Corciano, 2019). Negli anni, i suoi studi sui vecchi e nuovi media sono stati editati in numerossissime pubblicazioni scientifiche e di divulgazione e, grazie alla sua attività di docente universitario in Italia e all’estero, le sue metodologie di interpretazione critica sono state adottate da diverse generazioni di artisti, curatori e organizzatori d’arte. In seguito, gli sono stati conferiti ulteriori titoli in Arti Visive, Cinema e New Media.